Riuscire ad introdurre una mentalità corale vera, sovvertendo un’atavica italiana ritrosia alla condivisione degli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli, è un processo doveroso, non certo facile. Ma è un passaggio cruciale se vorremo (tornare a) contare in ambito internazionale.
È un’importante prerogativa, l’individualismo, divenuta virtù quando ci ha consentito di raggiungere traguardi ambiziosi sul fronte innanzitutto produttivo. La lista degli imprenditori italiani che sono riusciti a creare, spesso dal nulla, imprese capaci di competere con i colossi di tutto il mondo è sterminata. Industria, Moda, Arte, Design, Scienza e molti altri settori in cui abbiamo letteralmente sbaragliato una concorrenza che appariva flebile, al nostro cospetto. Tuttavia, la poca predisposizione a fare gruppo sta divenendo un limite, anche invalidante, nei nuovi mercati globali e, più ancora, nell’era della sostenibilità.
L’attitudine a fare tutto da soli affonda in un individualismo congenito che da noi sfocia spesso nell’egoismo e che, per quanto abbia consentito di fare grandi cose in passato, nell’era della globalizzazione si traduce in atteggiamenti anacronistici sempre più distanti dall’agognato bene comune.
Molti problemi odierni sono infatti riconducibili a questo istinto che ha forgiato una classe di imprenditori e una vera cultura imprenditoriale fondata sul singolo, divenuta grande grazie al lavoro e al genio di individui che, da soli, hanno portato questo strano Paese a primeggiare un po’ in tutto. La crisi, i mutamenti degli scenari economici globali e, più di tutto, una politica realmente poco incline ad aiutare, concretamente, le imprese italiane, specie quelle del comparto PMI, hanno però evidenziato problematiche impossibili da superare, se non si è uniti.
Le nuove logiche di lavoro e di sviluppo evidenziano la crescente necessità di essere grandi, forti e coesi, per poter competere nei nuovi mercati. Sono infatti comparse dinamiche e problematiche tanto complesse da non poter più essere affrontate in assenza di una strategia realmente collaborativa ma anche, o soprattutto, senza una struttura di sostegno grande e stabile. Una peculiarità inedita in Italia; un paese costellato da piccole e piccolissime imprese, molte delle quali a conduzione familiare. Ma la competizione attuale richiede spalle larghe e questo è comprovato dai molti processi di integrazione (fusioni per incorporazioni, partnership, alleanze) che avvengono ormai un po’ in tutti i settori, non ultimo in quello bancario, a testimonianza della pressante necessità di dover procedere in tale direzione.
Per chi voglia creare nuove imprese in Italia tutto si complica maledettamente non solo a causa di una poca attitudine a unire le forze, appunto, ma anche a fronte di criticità sistemiche tuttora irrisolte. Oggi, infatti, per chiunque abbia l’abilità, o la pazzia, per provare a costruire un’impresa in un garage o in un laboratorio artigiano, creando una Ferrari o una Ferrero, grazie al sogno e alla passione, è tutto troppo complicato. Per quel tipo di imprenditoria geniale le porte sono maledettamente chiuse.
Un sistema burocratico assurdo e irritante e un fisco che scaglia le sue mire solamente sugli onesti non consentono più a nessuno di tentare l’avventura. E per tutte le genialità, quelle tipiche di un glorioso passato, ogni velleità di fare impresa è inesorabilmente tramontata.
È triste constatare che gli “Enzo Ferrari” di domani, semmai ce ne saranno, non potranno più pensare di costruire una macchina vincente in casa nostra. Chi avesse quelle stesse incredibili capacità dovrà lasciare il paese e provare a farsi assumere da qualche casa automobilistica europea o giapponese. Pietro Ferrero, se potesse rinascere, più che cimentarsi nel tentativo di reinventare la Nutella, dovrà cercare fortuna in Svizzera, magari alla Nestlé.
Per quanto inaccettabile, va assunto il fatto che oggi nessuno potrà più ripercorrere le gesta dei nostri predecessori perché, pazzamente, le condizioni di un tempo sono state rimosse.
Giusto precisare, visto che l’obiettivo non è quello di enfatizzare i troppi “vizi” italici ma, semmai, quello di capire come poter risalire la china, che nell’Italia del benessere è venuta a mancare quella spinta motivazionale tipica degli scenari caratterizzati dallo “spirito di ripresa”. E questo, onestamente, non è colpa di nessuno. È cioè scemato quell’ardore nelle persone che le spinge a ritrovare, specie nei momenti più difficili della loro vita, anche lavorativa, quella spinta a fare le cose. Un entusiasmo propulsivo conseguente ai momenti di ristagno e di sconforto tipici delle grandi crisi, delle depressioni, delle guerre. Oppure, com’è accaduto in Cina, in Russia o in India, sebbene in forma minore, quando l’avvento di nuove condizioni politiche o economiche hanno stimolato l’avvio di uno sviluppo fortemente auspicato dalle masse. In quei momenti c’è attesa, speranza ed entusiasmo nelle persone. Quello stesso entusiasmo che, prima o poi, si spegne, una volta raggiunti i risultati attesi. È umano e lo si riscontra anche nello sport quando campioni, ormai acclamati, non riescono più a replicare le performances dei loro esordi.
Tuttavia, le sopraggiunte condizioni di benessere, per quanto effimero, non dovrebbero ripercuotersi sulla voglia, a questo punto doverosa, di riconquistare un ruolo primario in un paese che, nonostante tutto, seguita a sfornare capacità e genialità importanti. Ed è anche per questo che le logiche collaborative future, le uniche possibili, dovranno innanzitutto aiutare i processi di creazione delle idee. Una nuova strada, o un nuovo modo di percorrerla, grazie all’introduzione nel nostro DNA di un elemento nuovo e importante; il gioco di squadra.
Un’inedita strategia volta a generare un’incredibile forza propulsiva sprigionata dalla fusione sinergica delle capacità e delle idee di ciascuno di noi. Un concetto di gruppo probabilmente sconosciuto al popolo italiano che dovremo però assimilare velocemente per poi trasferirlo nei luoghi di lavoro, nelle imprese e nella politica.
Metodologie corali e sinergiche dovranno riuscire a scardinare una competizione interna che, per quanto sia stata anch’essa foriera di una spinta all’efficienza, è oggi la peggiore nemica della crescita. Giusto sottolineare che il gioco di squadra a cui mi riferisco non prevede affatto che il singolo si metta a disposizione del gruppo, limitando la sua identità, la sua capacità e le sue idee. Al contrario, io penso che l’avvento di una modalità collaborativa e sinergica potrebbe addirittura valorizzare le troppe menti brillanti che oggi non trovano né lo spazio per riuscire a emergere né le persone disposte a farle crescere.
La condivisione delle idee richiede, infatti, un importante lavoro di raccolta delle stesse – da parte di figure preposte al coordinamento dei lavori di gruppo – che consentirà ad ognuno di noi di mettere nella giusta evidenza il suo sapere.
Fra i fattori forieri di una vision più moderna e di un modo finalmente più corale di fare le cose, ma anche un presupposto imprescindibile della stessa innovazione – che dovrà anch’essa essere corale – solo un accenno a quella che ritengo essere la più importante fra le attitudini che dovremo imparare a sviluppare. È la “propensione al cambiamento”, intesa come la capacità e la volontà di mettere in discussione, laddove necessario, abitudini, consuetudini e perfino paradigmi ritenuti intoccabili; vecchi pilastri di uno status quo che nei processi di cambiamento vanno necessariamente rivisti e, se necessario, smantellati.
Un dogma dell’innovazione stessa, in mancanza del quale nulla potrà mai cambiare. È la spinta a infrangere molte vecchie regole – ormai vetuste e inadatte – in favore di nuovi paradigmi, più moderni ed efficaci.
Un principio chiave ineludibile, vorrei dire, che, se non è presente, pone grossi vincoli, perfino invalidanti, a qualunque processo di innovazione si intenda avviare. È impossibile, infatti, crescere, soprattutto oggi, senza porre un serio impegno all’analisi dei “componenti” (anche culturali) che devono essere modificati o sostituiti. Un lavoro introspettivo sincero e autocritico che tutti dovremmo imparare ad effettuare. Non è certo per disconoscere un bagaglio di conoscenza consolidato, che è il nostro sapere, ma è per metterlo nuovamente in condizione di produrre valore; rimodernandolo e attualizzandolo agli scenari che cambiano di continuo.
In molti contesti lavorativi si rilevano spesso posizioni inattaccabili che sembrano mostrare un legame quasi morboso, oltre che alle poltrone, o a ciò che si era sempre fatto così. Arroccamenti testardi su posizioni, anche di potere o di privilegio che il cambiamento potrebbe mettere in discussione. La classe dirigente italiana, a riprova di quanto detto, risulta essere la meno propensa ai cambiamenti, specie se significativi, e le motivazioni sottostanti sono evidenti.
È quindi auspicabile che in un momento storico in cui cambiare si deve, gli obiettivi di una crescita corale, e diffusa, riescano a fare breccia sovvertendo antichi e inadatti arroccamenti.